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Digital Advertising senza i cookie di Google?

A partire dal 2022, assisteremo ad una vera e propria rivoluzione del mercato del digital advertising, una rivoluzione privacy-oriented (perlomeno nelle intenzioni). Difatti, il prossimo anno, Google renderà pienamente operativa la Privacy Sandbox, una nuova soluzione che consentirà di raccogliere i dati e le informazioni relativi agli utenti dei prodotti e dei servizi digitali con modalità asseritamente più rispettose della protezione dei dati personali degli interessati. La Sandbox (che, nel gergo degli ingegneri, significa “ambiente protetto”), mira infatti a “ricostruire” la fiducia degli utenti nella digital economy, erosa dal massiccio utilizzo di cookie di terze parti operato da digital advertiser e da organizzazioni di ogni tipo e dalla sempre maggiore percezione di essere costantemente monitorati in tutte le azioni che compiamo online.

Il “pensionamento” dei cookie di terze parti – strumenti ad oggi essenziali per tutte le attività di digital marketing in quanto ideati per tracciare l’attività del singolo utente su diversi siti web – non è un’iniziativa recente: Safari e Firefox hanno già sposato da tempo la filosofia del “cookieless”. Tuttavia, l’avvento della Privacy Sandbox avrà comunque un effetto dirompente sul settore del digital advertising, considerato che Google Chrome rappresenta circa il 64% del mercato globale dei browser.

La “messa a terra” della Sandbox segnerà un importante cambiamento, in quanto essa si propone di sopperire alle esigenze di tracciamento dei digital advertiser senza trattare dati personali o, comunque, limitandone al minimo l’utilizzo, sfruttando diverse tecniche avanzate di raccolta e analisi dei dati. In particolare, la nuova soluzione prospettata da Google si compone di diverse Application Programming Interface, o “API” (i.e. procedure informatiche), tra le quali si ricordano, in quanto maggiormente significative:

  • Trust Token API: sostituisce i CAPTCHA e consente di creare dei c.d. “trust token” anonimi e crittografati, volti a dimostrare l’autenticità dell’utente (i.e. che la connessione al sito web proviene da un essere umano) anche su diversi siti web;
  • Privacy Budget API: limita la quantità di informazioni relative ai singoli utenti ottenibili dai siti web attraverso l’assegnazione di un “budget” a ciascuno di essi. Una volta esaurito il budget, l’API previene la raccolta di ulteriori informazioni;
  • Click Through Attribution Reporting API: strumento di conversion measurement volto a consentire all’advertiser di sapere se l’utente ha effettivamente acquistato il prodotto promozionato/è stato reindirizzato alla pagina promossa cliccando sull’ad senza poter risalire all’utente stesso;
  • Federated Learning of Cohorts (FLoC): una delle novità più rilevanti e maggiormente discusse della Privacy Sandbox, consente di analizzare le abitudini di navigazione – partendo anche dalla cronologia – di gruppi omogenei di individui (c.d. “coorti”) sfruttando tecniche di machine learning.;
  • Turtledove: consiste nell’effettuazione di un’“asta” per mostrare all’utente – individuato in quanto appartenente a uno o più “interest group” – l’annuncio più pertinente, sfruttando informazioni in merito agli inserzionisti verso cui l’utente ha espresso interesse in precedenza, nonché quelle relative alla pagina web attualmente visualizzata.

 

I dati di prima mano

Ulteriore aspetto di primaria rilevanza della Privacy Sandbox è che essa prevede la conservazione e l’analisi dei dati direttamente sul browser – e non, quindi, sui dispositivi degli utenti, come avviene invece con i cookie. Nell’intento di Google (o Alphabet, che dir si voglia), i dati e le informazioni che “lasceranno” i nostri dispositivi saranno infatti trasmessi al browser in forma anonima e successivamente aggregati al fine di poter eseguire sofisticate analisi comportamentali e consentire alle varie API di operare efficacemente.

A prescindere dalle considerazioni strettamente legate alla tutela dei dati personali e dal fatto che la Sandbox è ancora in fase sperimentale, ben lontana dal poter essere implementata, è chiaro che la sua introduzione costringerà organizzazioni di ogni tipo (non solo società di marketing ma anche testate giornalistiche, piattaforme di e-commerce e di delivery, retailer, assicurazioni, intermediari finanziari ecc.) a modificare radicalmente le proprie strategie di marketing e gli strumenti con cui queste verranno attuate.

A tal riguardo, è ragionevole attendersi che, nel prossimo futuro, le aziende maggiormente impattate dall’iniziativa ricorreranno sempre di più a cookie proprietari e, in generale, a soluzioni che prediligano l’utilizzo dei first-party data (i.e. dati raccolti direttamente dall’utente/consumatore, non ottenuti da terze parti), al fine di sopperire alla “carenza” di dati personali. Tale strategia, combinata con un approccio “omnicanale”, ovverosia finalizzato a massimizzare la raccolta di dati (personali e non) presso tutti i “touchpoint” – i punti di interazione tra azienda e consumatore –, sia online che offline, potrebbe consentire alle organizzazioni di ottenere una panoramica completa della propria clientela e di valorizzare al massimo informazioni già possedute ma non sfruttate appieno. L’adozione di nuovi modelli di business basati sui first-party data, tuttavia, potrebbe comunque rivelarsi onerosa, in quanto presuppone la capacità di collegare, analizzare e ricondurre al singolo cliente/utente dati estremamente disparati, come i dati relativi al comportamento del cliente sul sito web/nell’app, i dati raccolti nel contesto di programmi di loyalty, i dati relativi alle interazioni con le pubblicità online, le informazioni raccolte per mezzo di survey, giochi e contest, i dati raccolti in occasione di eventi e iniziative promozionali ecc..

Alla luce delle forti perplessità sollevate da parte degli advertiser – e, in generale, dalla società civile – in merito all’impatto dell’introduzione della Privacy Sandbox sul mercato della pubblicità online, alcune autorità antitrust si sono attivate per verificarne i potenziali effetti anticoncorrenziali. La Competition and Markets Authority (CMA) del Regno Unito ha, infatti, recentemente avviato un’indagine nei confronti di Google per abuso di posizione dominante, temendo che la nuova soluzione possa pregiudicare la capacità dei publisher di generare entrate e ricavi e, al contempo, minare la concorrenza nel digital advertising, rafforzando ulteriormente la posizione di Mountain View.

Tra tecnologie vecchie e nuove, progetti ancora in via di definizione e un possibile monopolio nel mercato del digital advertising, è chiaro che l’introduzione della Privacy Sandbox ha il potenziale per modificare sensibilmente le dinamiche e le modalità con cui fruiamo dei servizi e dei prodotti digitali, introducendo tecniche di profilazione estremamente avanzate. Tuttavia, a parere di chi scrive, la strada per garantire, da una parte, un accesso equo al mercato del digital advertising a tutte le organizzazioni e, dall’altra, la privacy degli utenti, appare essere ancora incerta e piena di insidie.

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